Komb(w)ine
C'è una nuova parola magica che gira tra Vinitaly e salotti buoni, tra calici levigati e sorrisi da stand
No, non è una mossa di wrestling. Non è nemmeno l'ultima bevanda o brodo funzionale al sapore di alga kombu e promesse dimagranti.
Stile Wanna Marchi.
No, è un incrocio: tra vino e kombucha. Un mosto d’uva fermentato con lo scoby. O una kombucha col mosto? O un nome carino per una cosa già vista, ma con un bel brand? Non è chiaro.
E questo, a quanto pare, è parte del gioco.
Komb(w)ine nasce da due professionisti bravissimi e seri: Andrea Moser, enologo top di lungo corso, e Ettore Ravizza, proprietario di Legend Kombucha. Hanno unito i mondi. Niente alcol. Pochi zuccheri. Solo uva, tè, batteri e storytelling.
Presentazione al Vinitaly, foto ufficiali con sorrisi importanti, lancio orchestrato benissimo. Standing ovation per il posizionamento, davvero: hanno fatto centro.
Ma a me ha fatto venire un piccolo dubbio e vorrei parlarne con te. Un dubbio di quelli acetici. Di quelli che ti restano in gola, come una nota agre mal bilanciata.
La discussione è nata tra amici qualche giorno fa.
Con alcune domande: Hai visto quella nuova tipologia di prodotti che hanno presentato al Vinitaly? Quali? Il Kombuwine. Ma cos’è? Ma quindi è una nuova categoria di bevande? Dove c’era il kombucha adesso c’è il kombwine, l’anello mancante tra lo scoby e il vigneto? E tu conosci altri kombuwine in giro? Mmmm.
Può un progetto così, nato da due professionisti italiani, arrogarsi il diritto di fondare una nuova categoria? E soprattutto: stiamo parlando di innovazione o di appropriazione?
Spoiler: entrambe. Ma vediamo.
L'appropriazione culturale nel cibo è uno di quei temi che in Italia ci fanno sempre un po' ridere. Tipo il kimchi: lo guardiamo, sorridiamo, e lo lasciamo nel frigo del Naturasì. Ma nel mondo anglosassone è un tema serissimo. La sintesi brutale è questa: chi ha il potere prende da una cultura marginalizzata qualcosa di gustoso, lo ripulisce, lo commercializza, lo chiama con un altro nome, lo vende a caro prezzo e si dimentica di citare chi lo faceva da mille anni. O peggio: glielo proibisce.
La serie Mo su Netflix lo spiega meglio di mille saggi accademici. È l'hummus che diventa israeliano, è il poke che perde le noci kukui e diventa un'insalatona da 14 euro con l'avocado ossidato a forma di cuore. È il wrap vegan ispirato al biryani indiano, senza biryani, senza India, senza senso.
E nel nostro caso? Beh. La kombucha è una bevanda fermentata con radici in Asia, diventata cultura casalinga in mezza Europa anzi in mezzo mondo, con appassionati giovani e vecchi, nerd hipster e contadini, e poi ripescata dal mondo wellness e trasformata in merce fighetta da Whole Foods. In Italia è ancora spesso considerata uno scherzo da radical chic ma diverse cose - deo gratias - stanno cambiando. Eppure c'è chi la produce con cura, con terroir, con passione vera. Penso a Selvatica Lab, ai microproduttori, alle fermentazioni spontanee fatte in cantina con ingredienti locali, alla kombucha agricola.
Potrei fare mille nomi ma te ne lascio tre: Selvatica Lab, La BeeO Baita, Selma Agricola Sermondi.
Komb(w)ine, dicevamo.
Quello che mi disturba non è il prodotto in sé, ma l'aura. Il tono. Il "noi stiamo inventando qualcosa che non c'è". Perché ehi, il komb(w)ine potrebbe anche essere buonissimo (non l'ho ancora assaggiato ma spero di farlo presto). Ma presentarlo come una rivoluzione che crea una nuova categoria enologica mi sembra una forzatura. E un po' una esagerazione.
Posizionarsi come brand di categoria è vecchia scuola. Al Ries e Jack Trout lo dicevano già nel '79: se vuoi vincere, devi essere il primo in testa al consumatore. Ma attenzione: essere il primo nel marketing non vuol dire essere il primo nella storia.
E qui arrivo al punto.
Non è che chiamare Komb(w)ine una cosa che altri fanno da anni, magari in contesti meno patinati, sia un modo elegante di ripulire, imbottigliare e vendere un prodotto che è già parte di un patrimonio culturale più ampio?
Non so se sia appropriazione culturale in senso stretto, ma ci siamo vicini. È appropriazione semantica, sicuramente. È appropriazione di categoria, è branding che diventa sovrascrittura. E se non riconosci pubblicamente chi prima di te ha lavorato con mosto e scoby, chi ha fatto esperimenti, chi ha fallito, chi ha preso per il culo il cliente che non capiva cosa stava bevendo, allora stai facendo solo un'altra operazione di colonizzazione gentile.
Si chiama capitalismo, baby. E ha il sapore della fermentazione, ma solo se pastorizzata.
Chiariamo: io adoro le contaminazioni. Amo i crossover. Credo nel sincretismo. Ma solo quando c'è onestà, rispetto, contesto. Non quando si crea una nuova bibbia partendo da frammenti di vangeli altrui.
E quindi? Bevetelo, il Komb(w)ine. Magari è buonissimo. Ma non cascate nella trappola semantica.
Non è una nuova categoria.
È un prodotto.
Bello, forse. Ma non unico. E non il primo.
KOMBUCCIOSI.
È la parola segreta di oggi. Se hai letto fino a qui, scrivimi, commenta o rispondi alla newsletter con questa parola. Ti mando un meme e un po’ di acido acetico per posta.
🍇🍇🍇🍇🍇🍇🍇🍇🍇Altre cose fermentate:
Ho scritto a Komb(w)ine per farmi raccontare il processo: niente risposta. Ritenta, sarai più fortunato?
Cerco chi ha fatto esperimenti con fermentazioni da mosto, bucce, raspi, foglie di vite. Mandatemi tutto. Anche errori.
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Alla prossima.
Kombucha e kimchi, gli facciamo in casa. Tavolta esce buono, tavolta non (mancanza di expertise e patienza). Quando e buono, e ... Kombucciosa. 'Buch us up, baby!
Il kimchi lo guardo, sorrido… e lo compro. Poi realizzo quanto l’ho pagato e il sorriso un po’ mi passa.
KOMBUCCIOSI <3